"Pietraie" e "calcarari" a Roma: recupero dei materiali da costruzione fra medioevo ed età moderna

Daniela Esposito

Resumo


Ne ruynis civitas deformetur et ut antiqua edificia decorem Urbis publice representent, statuimus quod nullus sit ausus aliquod antiquum edificium Urbis diruere vel dirui facere intra Urbem ad penam. C. librarum prov., cuius pene medietas sit Camere et alia medietas sit accusantis. Et Senator teneatur ad hoc inquirere nec dominus Senator vel aliquis alius possit dare licentiam contra predicta et si dederit incidat in pena. C. florenorum auri, camere applicandorum, et nichilominus licentia data non valeat[1]. Con queste parole lo Statuto di Roma del 1363 vietava la spoliazione e la distruzione dei monumenti antichi a meno di casi permessi con licenza del Senato e della Camera apostolica. Tali norme furono ribadite e riprese in varie forme anche nelle disposizioni dei secoli successivi, in particolare, ad esempio, nella lettera apostolica del 28 aprile 1462 nella quale si legge che “accogliendosi le vivissime preghiere dei Conservatori di Roma e dei Caporioni si fa divieto di distruggere monumenti antichi o i ruderi di monumenti esistenti in Roma e nel suo distretto sotto pena del carcere e della confisca dei mezzi di demolizione e di trasporto”. Così si proseguì anche nel corso dei secoli successivi, come in alcuni bandi dei cardinali Luigi Cornaro (20 giugno 1570) e del cardinale Pietro Aldobrandini (9 aprile 1600) con i quali furono dettate norme per la protezione delle antichità e fatto divieto di “guastare pietre antiche o pezzi di statue”.


[1] Statuti della città di Roma, a cura di C. Re, Roma, tip. della Pace, 1880, p. 188 (De antiquis edificiis non diruendis).


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